“- E di cosa è morto? – domandò Caderousse con voce strozzata. – E di cosa si muore in carcere, quando si muore a trent’anni, se non del carcere stesso?” (Il conte di Montecristo)

Ancora una volta la cruda realtà delle carceri italiane ci riporta con i piedi per terra: due detenuti, Liborio Davide Zerba e Victor Pereshchako, sono morti in carcere ad Augusta a seguito di una protesta portata avanti per mezzo di un duro sciopero della fame.

Sarebbe forse meglio dire che il sig. Zerba ed il sig. Pereshchako sono morti di carcere.

E, come spesso accade quando si parla di fatti che riguardano soggetti in vinculis, sono morti nel più totale silenzio.

Perché la verità è che, nonostante il caso Cospito avesse fatto sperare in una avvenuta maggiore sensibilizzazione nei confronti del mondo penitenziario, questa realtà rimane quotidianamente ben lontana dai cuori, dalla mente e dai valori costituzionali che dovrebbero esserne le fondamenta.

E la tragica riprova di ciò è che due uomini, che dallo Stato sarebbero dovuti essere protetti e tutelati e che nello Stato avrebbero dovuto trovare disponibilità all’ascolto ed al dialogo, sono morti nell’assordante silenzio delle Istituzioni e della cittadinanza, che si riscopre indignata solo a tragedia (evitabile) ormai avvenuta.

Ma perché lo sciopero della fame? Perché si protesta?

Al di là delle ragioni specifiche e personali della singola protesta, i motivi – nell’odierna condizione italiana – non mancano: suicidi, sovraffollamento, carenza di personale, strutture fatiscenti ed insalubri, deficit nella gestione e trattamento di soggetti affetti da patologie mentali.

Nel 2022 si sono tolti la vita 84 detenuti in Italia, uno ogni 5 giorni: 20 volte in più di quanto non avviene nel mondo libero. Un detenuto ogni 670 presenti si è ucciso.

Lo stesso Segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria affermò lo scorso anno come l’età media dei detenuti suicidi si sia vertiginosamente abbassata “e il 40% dei decessi sono extracomunitari a riprova che i giovani, insieme ai tossicodipendenti e a quanti hanno problemi psichici e con essi i giovani stranieri sono i più fragili e vulnerabili”.

Nonostante la condanna per trattamenti inumani e degradanti dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il sovraffollamento nelle nostre carceri (piaga italiana conseguenza di un sistema penale carcerocentrico) è di nuovo a livelli allarmanti: durante una visita tra marzo e aprile 2022 nelle carceri italiane, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) riscontrava che il “sovraffollamento carcerario rappresentava un problema, con carceri che operavano al 114% della loro capacità ufficiale di 50.863 posti”, denunciando come gli Istituti non offrissero un adeguato ambiente terapeutico, in particolare per i soggetti affetti da patologie psichiatriche.

Un anno fa nel nostro Paese la popolazione carceraria ammontava al 114% della capacità ufficiale di 50.863 posti. Ma questo dato, evidenzia il rapporto redatto dal Comitato, non racconta la realtà di istituti come quello di Monza e della Capitale, in cui il tasso d’occupazione era del 152%.

Lo stesso Comitato, rilevate le insalubri condizioni materiali degli Istituti visitati, aveva raccomandato di assicurare arredi e forniture adeguati nelle celle, riparare le finestre ed i radiatori, che fosse risolto il problema della muffa pervasiva nelle docce comuni e migliorata la fornitura di acqua calda, osservando come sia necessario assicurare a tutte le persone detenute in carcere condizioni di vita minime che garantiscano la loro dignità: ogni persona dovrebbe ricevere una regolare fornitura di prodotti di pulizia e igiene personale come anche biancheria da letto pulita e un cuscino.

A ciò si aggiunge la vertiginosa carenza di organico: dall’ultimo rapporto reso pubblico del DAP e datato 2016, emerge come in Italia il rapporto tra detenuti ed agenti di polizia penitenziaria si aggiri all’1,67 ogni detenuto (con una carenza di organico che arriva al 20%) mentre la media europea soprassa ampiamente i 2,5 agenti per ogni persona ristretta. A ciò deve aggiungersi il netto divario tra il numero di educatori previsti e quelli effettivi, che si attesta intorno ad un valore medio di -35%, toccando in alcuni provveditorati livelli particolarmente drammatici (Toscana ed Umbria -45,59%).

Posizioni che, invece, richiederebbero particolare attenzione, essendo ruoli che debbono costantemente mediare tra le esigenze della custodia e quelle del trattamento rieducativo il quale, in una tale condizione, risulta evidentemente frustrato e irraggiungibile, a tal punto da far emergere un chiaro messaggio: che la reale finalità della pena sia legata al contenimento della persona piuttosto che alla sua risocializzazione.

All’agghiacciante ed ingiustificabile indifferenza che ha accompagnato l’unica lotta pacifica che un detenuto possa attuare, deve necessariamente fare seguito una riflessione, quantomeno postuma, sullo stato attuale delle carceri italiane che – almeno questa volta – non si risolva in una sterile denuncia ma che, dinnanzi ad una non più sostenibile condizione barbara del mondo penitenziario italiano, sappia trovare quel coraggio e quella forza per porre in essere quel necessario cambiamento atto ad adeguare la condizione detentiva italiana all’imprescindibile rispetto dei diritti umani.

Perché lo Stato sia davvero garante e difensore di quelle vite che pretende e prende in custodia.

Guia Tani. Avvocata. Responsabile carcere della Camera Penale di Livorno

(nella foto l’opera “Il Prigione” di Adolfo Wildt – Coll. Priv. -)

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